martedì 20 dicembre 2011

La guerra virtuale dell’Eurozona


La guerra virtuale dell’Eurozona

di Lucio Caracciolo
RUBRICA IL PUNTO. La fine o la salvezza della moneta unica sarà la fine o la salvezza di un'ambizione geopolitica. Il metodo europeista astrae dai popoli, e prospetta due scenari da incubo: sospensione della democrazia o trionfo di leader eurofobi e xenofobi.

Limes 6/11 Alla guerra dell'euro | L'euroaccordo non risolve la crisi

(Carta di Laura Canali tratta da Limes 6/11 "Alla guerra dell'euro" - per ingrandireclicca qui)
L'euro è un progetto geopolitico in veste monetaria. La sua fine o la sua salvezza saranno fine o salvezza di un'ambizione geopolitica. L'euro non era e non è una necessità tecnica. Sotto il profilo monetario è un'assoluta anomalia, in quanto divisa senza sovrano, dunque senza garante di ultima istanza.

Peggio: con diciassette pseudosovrani. Il suo spazio di circolazione disegna un'area monetaria men che ottimale. Per cultura e storia fiscale, vocazioni e strutture economiche, dinamiche sociali e demografiche, resta difficile immaginare il senso di un unico conio per estoni e ciprioti, greci e olandesi, italiani, lussemburghesi e quanti altri. A stringere, financo per francesi e tedeschi.

Specialmente se la Germania, benchmark dell'Eurozona, vive nel culto del suo peculiarissimo capitalismo corporativo, nella devozione per l'”economia sociale di mercato” teorizzata e praticata dal padre del “miracolo” postbellico, il ministro dell'Economia (1949-63) e poi cancelliere (1963-66) Ludwig Erhard. E se l'élite finanziaria tedesca resta convinta, come Joseph Schumpeter, che la moneta esprima tutto ciò che “questo popolo vuole, compie, soffre, è”. Un popolo, non diciassette. La spiritualità della moneta: per noi latini, un concetto avvolto nelle nebbie nibelungiche.

Dobbiamo trarne che Maastricht fosse un atto di follia collettiva? O una cabala antieuropea di banchieri angloamericani (leggi: ebrei), come quei nove che il terzo mercoledì di ogni mese si riuniscono a Manhattan nel club dell'Ice Trust e che scandirebbero il corso dell'umanità al ritmo dei propri innominabili interessi? Non l'uno né tantomeno l'altro. Gli autori dell'Unione economica e monetaria ritenevano di perseguire legittimi interessi nazionali per costruire un'Europa ad essi confacente. Quanto a Londra e Washington, senza trincerarsi dietro oscure manovre, hanno tentato in ogni modo di soffocare l'euro nella culla, per loro altrettanto legittimi interessi economici e geopolitici.

Il metodo europeista astrae dai popoli. Purtuttavia esistiamo. In questa isterica euroagonia, e nel contesto di una crisi che da occidentale minaccia di farsi globale, investendo financo la Cina, chi è disposto a sacrifici che avvitano le nostre economie in una spirale depressiva a tempo indeterminato e non ci garantiscono contro il default? Se poi la “primavera araba” investisse Vicino Oriente e Golfo, per esempio sotto specie di un attacco preventivo israeliano all'Iran, chi potrebbe scansarne lo shock energetico, economico e geostrategico?

Di qui alla sospensione della democrazia in nome dell'emergenza e/o all'affermarsi di leader eurofobi e xenofobi nel cuore del Vecchio Continente il passo non è necessariamente lungo. La posta in gioco non è dunque solo economica, tocca la qualità della nostra vita associata, delle nostre istituzioni, della nostra geopolitica. I padri fondatori esibivano l'Europa come assicurazione contro la guerra.

Il guasto peggiore dell'europeismo senza europei è di avere eroso la fede dei cittadini degli Stati membri non solo nell'utilità dell'Unione Europea, ma nella sua capacità di garantire la pace interna. La battaglia nell'Eurozona è guerra virtuale, combattuta con armi apparentemente non letali, ma che diffondono disperazione nel cuore delle nostre comunità, sempre meno coese e più anomiche. Quando scocca l'ora del “si salvi chi può”, le campane della libertà e della pace suonano a morto.

(15/12/2011)

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