mercoledì 31 agosto 2011

Cesare Geronzi, un banchiere tra politica e Vaticano

Un banchiere tra politica e Vaticano

L'appuntamento in genere era la domenica sera. Nella sua villa di Marino, Cesare Geronzi - parliamo di qualche anno fa - ospitava Silvio Berlusconi e Antonio Fazio. E lì, sotto gli alberi, magari con la scusa di un tiro a bocce, si discuteva e soprattutto si decideva. Il capitalismo relazionale di Geronzi, nella sua declinazione più prossima alla politica, era anche questo: lontano dai riflettori, ma anche dalle consunte liturgie della terrazza romana ben rappresentate da un noto sito web sul quale la classe dirigente butta l'occhio almeno un paio di volte al giorno. Da Marino - cuore vinicolo dei Castelli - è partito, e lì torna sempre. Un legame forte con il territorio: la moglie Giuliana Iozzi, marinese come lui, prima ha lavorato al rilancio della famosa Festa dell'Uva di Marino (descrita da una celeberrima canzone) e poi ha ricoperto incarichi al comune, accarezzato l'idea di diventare sindaco sostenuta da tre liste civiche trasversali da destra a sinistra, a conferma di una vocazione familiare. Ma con ogni probabilità ha inciso anche sul carattere dell'uomo, per nulla incline al sussiego, in privato schietto, in pubblico essenziale.
La famiglia fa sacrifici e lo fa studiare, tanto che nel 1960 supera il concorso in Banca d'Italia, dove negli anni creerà la base su cui costruirà una carriera formidabile e a cui resterà sempre legato («un saio che ti porti sempre addosso», è uso definire il passaggio in via Nazionale). Allievo di Guido Carli, in pochi anni di lavoro a capo basso arriva a guidare l'uffico cambi, snodo nevralgico della politica monetaria, da dove tiene d'occhio gli speculatori che via via mettono sotto pressione la liretta dell'epoca, che passava da una svalutazione all'altra. Un potere reale immenso, in realtà. Un giorno, raccontano le biografie, il grande Beniamino Andreatta affermò in Parlamento: «Mentre voi state discutendo, c'è un signore di nome Cesare Geronzi che manipola il tasso d'inflazione del nostro Paese». Era la prima volta che il suo nome veniva pronunciato in pubblico, anche se gli adetti ai lavori lo conoscevano bene. Ricorda Florio Fiorini, nei primi anni '80 a capo della finanza dell'Eni, che quando esagerava con le operazioni spericolate lo chiamava Geronzi, ribattezzato "il dottor Koch", dal nome del palazzo dove ha sede la banca centrale. Lì stabilisce un soldalizio con Antonio Fazio, che negli anni avrà alti e bassi. Esce da Bankitalia e segue Rinaldo Ossola al Banco di Napoli, ma l'esperinza dura poco, i napoletani dell'epoca non amavano i colonizzatori. Appoggiato da Carlo Azeglio Ciampi ricomincia dalla piccola Cassa di Risparmio di Roma, che in poco tempo diventerà il più formidabile polo aggregante bancario d'Italia, per la verità senza badare troppo ai ratios o alle sofferenze nascoste tra le pieghe. La sonnacchiosa banchetta romana, grazie ai buoni uffici di Giulio Andreotti, si pappa il Banco di Santo Spirito, all'epoca dell'Iri. Non è solo crecita dimensionale: si tratta della banca di fiducia del Vaticano, che storicamente ha sede proprio di là dal ponte di Castel Sant'Angelo. Ma il vero salto lo fa subito dopo con l'acquisizione del Banco di Roma - l'altro istituto di fiducia della Santa Sede e dell'intera classe politica democristiana, ma che soprattutto ha in pancia la quota Mediobanca che sarà strategica per gli sviluppi futuri - venduta dall'Iri presieduto da un altro andreottiano di ferro, Franco Nobili. Sono gli anni in cui tutto o quasi si decide nello studio al terzo piano del Presidente, a piazza San Lorenzo in Lucina, e in cui le diramazioni del potere andreottiano si allargano dalla partecipazioni statali all'imprenditoria privata che in un modo o nell'altro fa affari con lo Stato. A chi chiede come fare per portare in fondo un'operazione, il Presidente - raccontano quelli che gli sono stati vicino a lungo - risponde «parlatene con Geronzi».
Ma tangentopoli è in arrivo e Silvio Berlusconi sta per scendere in campo. Con il Cavaliere - e con il suo plenipotenziario Gianni Letta - sarà stretto un sodalizio che dura fino ad oggi, e che passa nel 1995 per il sostegno all'operazione Wave che porta in Borsa Mediaset. Anche se Geronzi - che nel fattempo aggrega Bna e Mediocredito - non trascurerà di stringere con altri, tra cui Massimo D'Alema e Piero Fassino, ma anche con Walter Veltroni (per la verità in maggiore sintonia con Matteo Arpe) con il quale condivide ufficialmente la battaglia della romanità, preservando la banca dagli appetiti nordisti. Prestare denaro è politica, forse della più efficace, lo sa lui, lo sanno gli altri. E così la Banca di Roma sarà sempre al centro di partite cruciali come la ristrutturazione del debito dei Ds e il sostegno finanziario all'Unità e al Manifesto. Ma anche il calcio è potere, e ad un certo punto Geronzi avrà in mano i destini aziendali della Roma (ancora oggi in ballo) e poi della Lazio - a lungo sponsorizzata direttamente sulle magliette biancocelesti - di Fiorentina e Perugia. La Banca è al culmine del suo radicamento, porta in Italia gli azionisti libici, ma il gioco si fa duro, spuntano i guai giudiziari, di lì a poco l'alleanza storica e ostentata con Fazio si rompe sulla partita Antonveneta, che il Governatore aveva destinato alla Popolare di Lodi (vicenda che ancora occupa le aule di giustizia). Sono gli anni in cui Geronzi consolida un rapporto con Tremonti, che fu il più fiero avversario di Fazio tanto da ottenerne le dimissioni a fine 2005. Ma in tempi recenti - proprio lo scorso novembre - in una delle rare uscite pubbliche, arriva dopo molto tempo e tanto gelo l'attesa riappacificazione ufficiale, con il riconoscimento del ruolo svolto dal Governatore nel «disboscamento della foresta pietrificata» e la chiamata dell'amico Antonio alla guida del comitato scientifico della Fondazione Generali. Intanto, è il 2007, da meno di un anno Intesa si è fusa con il San Paolo, e il tempo stringe per chiudere operazioni di sistema. Nasce così l'operazione che porta UniCredit ad acquisire Capitalia, che gli spianerà la strada per la guida di Mediobanca che anni prima, ha detto sempre di recente, «avevamo pacificato» trovando l'accordo tra soci italiani e francesi. Un gioco in grande nel quale Geronzi dà il meglio di sè, dove ogni cosa passa senza trovare ostacoli, come l'eliminazione del sistema di governance duale faticosamente varato da Piazzetta Cuccia poco prima. Quando fu decisa la fusione con UniCredit e Capitalia andava dentro la pancia di un colosso nordico-tedesco la Chiesa, si allarmò: che fine faranno i rapporti stretti tra l'ex Santo Spirito e le mille diramazioni ecclesiali, dal momento che tutto finiva in un conglomerato di diversa marca? Ed ecco Geronzi che all'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede incontra i vertici della Cei per rassicurare che la direzione di marcia non cambiava. Ma è con il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che il rapporto è particolarmente fecondo. Un segnale è stata l'assunzione come capo delle relazioni istituzionali prima in Capitalia e poi in Mediobanca del giovane avvocato ligure Marco Simeon, pupillo del cardinale. Eppoi le nozze di una delle figlie di Geronzi personalmente celebrate da Bertone, nel dicembre 2007 a Santo Spirito in Sassia. Tra gli ospiti della cerimonia, ricordano le cronache dell'epoca, anche nomi che in queste ore ricorrono di continuo, come il suo predecessore alla presidenza di Generali, Antoine Bernheim, e i vertici di Mediobanca, Renato Pagliaro e Alberto Nagel.

Una vita al riparo dalle luci della ribalta, quindi. In verità c'è un episodio in cui si concesse al glamour: era il 2005 quando, in occasione della convention annuale dei dirigenti di Capitalia, insieme ad Arpe, fece una delle famose "interviste doppie" con le Iene. Una risposta sulle altre: «Politico preferito? il presidente Cossiga».

LA PAROLA CHIAVE
Governance duale
Mediobanca è stata la prima società italiana ad adottare la governance duale: in questo modello il governo societario prevede è la suddivisione in due diversi organi delle attività gestionali e di controllo di una società: un Consiglio di sorveglianza, al quale sono demandate le funzioni di controllo e che determina le linee guida e di indirizzo della società; e un Consiglio di gestione, che si occupa dell'amministrazione e gestione della società uniformandosi alle linee guida formulate dal Consiglio di sorveglianza.
Come detto, Mediobanca è stata apripista in Italia, ma anche la prima a fare marcia indietro: già nel 2008 Piazzetta Cuccia è tornata alla governance tradizionale.

50 ANNI DI ASCESA DA BANKITALIA ALLE GENERALI

1961-1980
Primi passi a Palazzo Koch
Cesare Geronzi fa il suo ingresso in Banca d'Italia nel 1961, dove lavora nel settore cambi collaborando con Guido Carli (nella foto) per 15 anni. Lascia Palazzo Koch nel 1980 per approdare al Banco di Napoli in qualità di vicedirettore generale, incarico che mantiene fino al 1982.

1982-2002
L'ascesa capitolina
Nel 1982 Geronzi diviene direttore generale della Cassa di Risparmio di Roma. Nei primi anni 90 la banca cresce aggregando Banco di Santo Spirito e Banco di Roma.
Nasce la Banca di Roma che acquista numerosi altri istituti in Italia e nel luglio 2002 si trasforma in Capitalia.

2002-2007
La fusione con UniCredit
Nel 2004 Geronzi e Capitalia sono coinvolti nei crac Parmalat e Cirio. Il banchiere viene condannato per il crac Italease (sentenza ribaltata in appello). Supera la concorrenza interna di Matteo Arpe e nel 2007 fonde Capitalia con l'Unicredit di Alessandro Profumo (foto a sinistra).

2007-2011
Da piazzetta Cuccia a Trieste
Un mese dopo l'operazione UniCredit, Geronzi diventa presidente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca, di cui era già vice presidente. La sua parabola si conclude nell'aprile 2010, quando viene nominato presidente delle Generali.

Giorgio Bocca: “Il Pd come il Psi di Craxi"

Giorgio Bocca: “Il Pd come il Psi di Craxi, Bersani si butti a mare”

31 agosto 2011

ROMA – “Rubano tutti”, anche a sinistra: novantuno anni e un “tono mite”, racconta il Fattoquotidiano, Giorgio Bocca dà sfogo alle sue riflessioni sull’onestà in politica. Lo scrittore e giornalista di Repubblica e L’Espresso vede “un’assoluta identità” tra il Pd e il Partito socialista di Bettino Craxi.

Quanto a onestà per Bocca tra destra e sinistra cambia poco e “Bersani non dovrebbe fare un passo indietro, ma un tuffo nel mare”. E ancora: ”Alla fine della Guerra io e altri partigiani pensavamo che il Partito socialista avrebbe cambiato il modo di fare politica in Italia. Nel giro di pochi anni tutte le persone per bene e oneste sono state cacciate da quel partito. Dove sono rimasti solo i furbi e i ladri. La politica è cambiata? Non lo penso”.

Alla domanda su eventuali pericoli all’orizzonte risponde: “L’unico pericolo è che questa intera classe dirigente, per non andare in galera, faccia un golpe. Proveranno a tirare avanti, come han fatto fino a ora. Chi ha i soldi se la cava. Cesare è ricordato come uno dei più grandi uomini politici della romanità ed era uno che confessava candidamente di aver rubato. Però potrebbe arrivare anche un moto d’ira popolare che li manda tutti a casa. Mi trovo di fronte a un’umanità incomprensibile. Un politico che ruba, sa di essere al di fuori dell’etica. Eppure lo fa. Io veramente non li capisco”.

LA MANOVRA CHE INSEGNA AD EMIGRARE

LA MANOVRA CHE INSEGNA AD EMIGRARE

di Marco Della Luna

Il rifacimento 30.08.11 della manovra-bis di risanamento dei conti pubblici conferma il mio già più volte enunciato teorema, secondo cui la classe politica italiana non può tagliare, nemmeno in situazioni di emergenza, nemmeno per rilanciare l’economia in recessione, la spesa improduttiva (inutile, parassitaria, clientelare), perché è quella da cui dipende per arricchirsi e ancor prima mantenere il potere, e ne dipende tanto più rigidamente, quanto peggio amministra – perché quanto peggio amministra, tanto meno riceve sostegno fisiologico, e tanto più deve procurarselo in via clientelare e ladresca.

Il caso Penati non è un’eccezione, ma la regola: ciò di cui lo si accusa è semplicemente ciò per cui e con cui operano i partiti. E’ la regola, non l’eccezione criminale. E’ lo strumento della produzione del consenso, quindi della legittimazione politica, anche se per la legge formale è illecito. Il rifacimento della manovra era stato, per l’appunto, imposto dalle esigenze degli apparati dei partiti, i quali non possono rinunciare alla spesa degli enti locali perché da essa mangiano e traggono le risorse per ottenere i voti e le sponsorizzazioni. La nuova e stravolta versione della manovra è stato un rifacimento per salvare la greppia della casta. Per la medesima ragione i partiti non possono rinunciare alle 25.000 poltrone di consiglieri di amministrazione di enti misti, dove mangiano ancora di più. Non è possibile, per la nostra classe politica e burocratica cessare queste pratiche, perché da esse dipende la sua stessa esistenza. Non è possibile che essa si metta ad amministrare bene, perché l’unica cosa per cui si è selezionata e formata è quella pratica, quindi manca delle necessarie competenze tecniche per fare buona amministrazione. Infatti, non sa nemmeno far quadrare i conti sulla carta. Davanti al mondo si comporta in un modo grottescamente contraddittorio, convulso, indecoroso. Accecata e indementita dalla sua avidità, angosciata dal rischio di perdere le sue posizioni, è completamente appiattita sulla divorante esigenza di assicurare a se stessa i soldi e le risorse pubbliche con cui preservarsi nell’immediato, e a tal fine spreme il paese con ulteriore pressione fiscale, a costo di precipitarlo nella recessione. Del rilancio economico e del medio-lungo termine neanche si dà pensiero. E ciò non vale solo per il centro-destra, ma pure per il centro-sinistra, la cui contro-proposta arrivava a 1/10 della copertura e, come quella del centro-destra, non aveva reali strumenti per il rilancio economico.

E così il suddetto rifacimento, seguito all’ondata di proteste suscitata dalla sua prima versione, sta abortendo già il giorno stesso del suo esultante annuncio da parte di Berlusconi e Bossi: fallisce sia nel paese (perché l’ondata di rifiuto monta come contro la precedente versione), che sui mercati finanziari, perché lo spread Btp-Bund si è impennato e il FMI ha tagliato le previsioni sul pil (i mercati si sono accorti che la manovra non ha copertura, che tra qualche giorno bisognerà fare un’ulteriore manovra, che è incostituzionale, che consiste più di promesse lontane che di fatti tangibili, come il dimezzamento dei parlamentari e la soppressione delle province). Per non parlare delle palesi illegittimità del togliere diritti per i quali i cittadini hanno già pagato (riscatto degli anni di laurea) o del discriminatorio mantenimento del c.d. prelievo di solidarietà sui soli redditi degli statali. Mi chiedo se Tremonti avrebbe mai sottoscritto una manovra di tale livello, prima che l’affaire Milanese lo indebolisse e lo rendesse, come alcuni dicono, più disponibile all’ascolto delle ragioni degli altri.

A questo punto è chiaro a tutti – a tutti gli operatori stranieri, se non a tutti gli Italiani – che la vera stortura, il vero male da tagliare, è la stessa classe politico-burocratica italiana, e che se essa non viene eliminata il paese continuerà ad andare allo sbando e poi alla rovina. Poiché essa, internamente solidale nonostante gli scontri di facciata, detiene e domina tutti gli spazi politici e le istituzioni, non è possibile eliminarla per via elettorale – e in effetti non è mai stata eliminata, nonostante le molte elezioni e i molti cambi di maggioranza. In teoria, una simile casta dovrebbe essere eliminata con una rivoluzione popolare, che la tolga di mezzo fisicamente. Ma gli Italiani sono codardi, incapaci di organizzarsi e di fidarsi e di comportarsi lealmente, quindi non faranno alcuna rivoluzione – e in effetti non ne hanno mai fatte. E, ancora più importante, essi tradizionalmente concepiscono il rapporto con l’uomo politico di riferimento come una complicità, un allearsi per fare i propri interessi a spese della cosa pubblica. Mangiare insieme. Infatti le preferenze più numerose le prendevano i politici più bravi in quest’arte. Quindi la classe politico-burocratica italiana è un’espressione antropologica degli Italiani reali, non un qualcosa di sovrapposto alla società italiana, che possa essere rimosso per liberare quella società da un parassita. Forse non bastano secoli per cambiare la mentalità di una popolazione. Diverse civiltà del passato si sono accorte di essere in decadenza, e hanno cercato di porvi rimedio, ma nessuna vi è riuscita. Hanno tutte continuato a decadere finché sono state spazzate via o sottomesse da altri popoli.

Di tutto questo, della deriva alla rovina, dell’impossibilità di correggere, dell’inutilità dello strumento elettorale, della infattibilità di una rivoluzione, la gente ha oramai una percezione diffusa. E questa percezione si traduce in comportamenti realistici, ossia emigrare, delocalizzare, preparare i propri figli per andare a studiare e lavorare all’estero. Anche a studiare, ovviamente, perché la scuola italiana, soprattutto l’università, è degradata e dequalificata come tutto il sistema-paese, quindi una buona formazione è, con poche eccezioni, possibile solo all’estero. Perché sforzarsi di cambiare le cose, di debellare la partitocrazia, di organizzare una rivoluzione o una secessione? Queste sono tutte opzioni incerte, lunghe, faticose, pericolose. Antieconomiche. Emigrare è molto più semplice, rapido, sicuro. Emigrare, ossia uscire non solo dall’Italia, ma anche e soprattutto da un popolo e da un sistema sociale programmati per stagnare e marcire.

31.08.11