sabato 31 agosto 2013

Un modello sociale elitario e neoschiavista

Ho letto con grande attenzione il saggio Figli di Troika scritto dall’economista Bruno Amoroso (clicca per leggere). Un racconto breve ma intenso che, intelligentemente, offre ai lettori una chiave una di lettura diversa rispetto ai soliti ritornelli dominanti. Siamo sicuri di poter affermare che le politiche del rigore hanno fallito? E se avessero invece trionfato consentendo in maniera dissimulata il ritorno in Occidente di un modello sociale elitario e fondamentalmente neoschiavista? In esclusiva per Il Moralista l’analisi del prof. Amoroso
Prof. Amoroso, in molti cominciano a criticare la politiche improntate ad una cieca austerity sul presupposto che alle prova dei fatti tali scelte si sarebbero rivelate sbagliate. E’ d’accordo?
E’ fuorviante parlare di sbagli tecnici o politici alla base della crisi in atto che continua a flagellare l’Europa, specie quella del sud. L’adozione di una serie provvedimenti legislativi, tutti chiaramente destinati ad alimentare una spirale recessiva, denota al contrario una coerenza di visione perseguita da alcuni gruppi di potere che finiscono con l’avvantaggiarsene. Nessun errore. Al contrario, le politiche “della responsabilità” stanno ottenendo proprio i risultati che intendevano realizzare.
E quali dissimulate intenzioni nascondono in realtà alcune linee di indirizzo politico imposte su scala continentale?
Fino agli anni ’60 vigeva incontrastato un modello paradigmatico sintetizzabile nell’assunto “produzione di massa per consumo di massa”. All’interno di quello schema, la legittima ricerca del profitto non cozzava con l’aspirazione di costruire una società inclusiva e per quanto possibile equa. Questo modello di sviluppo trovava compimento all’interno di una cornice che era rappresentata dai singoli stati nazionali. La globalizzazione ha cancellato quel vecchio mondo. Oggi le istituzioni sovranazionali sovrastano gli Stati nazionali, e i consumi sono diventati esclusivo appannaggio delle classi medio alte. Gli altri, se ci riescono, si arrangino. E’ questa la nuova filosofia dominante.
Quindi il neoliberismo non ha fallito
Proprio per nulla. Il neoliberismo sta realizzando quello che tutti si aspettavano che realizzasse. Non c’è nulla di casuale in quello che accade. La globalizzazione è in buona sostanza una forma di apartheid sociale.
Da cosa desume con certezza la circostanza che la povertà dilagante non sia il risultato di politiche inefficaci prese in buona fede quanto il risultato di un lucido disegno stabilito ex ante?
Senta, le faccio un ragionamento semplice semplice. A detta di tutti la famosa crisi tuttora in atto parte nel 2008 con il fallimento di alcuni colossi americani. Una crisi figlia di una architettura giuridica e istituzionale che sta producendo a cascata danni su scala planetaria. Se i governanti fossero stati in buona fede, cosa avrebbero dovuto fare per impedire il ripetersi di una simile sciagura? Avrebbero dovuto approvare regole nuove e diverse. Siamo d’accordo? E invece cosa hanno fatto? Nulla. Zero. Il financial board, che doveva riformare la finanza mondiale, non serve a niente mentre  a nessuno è venuto in mente di tornare allo spirito dello Steagall Act di rooseveltiana memoria. Non solo nessuno ha fatto nulla ma, ne sono certo, c’è perfino chi manovra nell’ombra al fine di preparare  le condizioni per permettere il rapido esplodere di un nuovo collasso bancario da “tamponare” mettendo le mani sui risparmi dei cittadini. In Italia solo il Movimento 5 Stelle ha avanzato una proposta di buon senso presentando un progetto di legge tendente a separare le banche speculative da quelle dedite alla gestione del risparmio. Per il resto buio assoluto.
Lei nel suo libro accenna ad una non meglio precisata “finanza incappucciata”. Sono loro, i fratelli, quelli che manovrano la giostra?
Magari erano incappucciati una volta. Ora non lo sono più. Agiscono in maniera sfacciata. Un tempo se ne stavano prevalentemente all’interno dei cosiddetti organismi di controllo, Istat, Banca d’Italia e via discorrendo. Oggi fanno direttamente i ministri. Ma cosa controllerà mai Banca d’Italia che esprime Saccomanni ministro dell’Economia? Lo stesso discorso potrebbe farsi per l’Istat. Tutte queste figure operano alla luce del sole e il sole che oggi in Europa fa più luce di tutti si chiama Mario Draghi. Queste cose non le vede solo chi non vuole vedere o, più spesso, chi non ne ha interesse. La fine dei partiti storici ha accelerato questa deriva. I due veri poteri forti rimasti oggi in circolazione si chiamano finanza e industria della guerra. Giulio Sapelli, a tal proposito, ha scritto pagine illuminanti.
In tutto questo continua ad aleggiare un mistero. Perché la sinistra, storicamente nata con il compito di tutelare i più deboli, continua a prestare il fianco ad una operazione geopolitica sostanzialmente iniqua ed elitaria?
Perché è cambiato il rapporto tra politica e potere. Un tempo le forze progressiste difendevano per costituzione la classi povere cercando uno sponda tattica fra i ceti medi e medio bassi. Stavano insomma dalla parte degli “sfruttati della terra”. La sinistra di oggi invece che fa? Galleggia pensando di rappresentare gli interessi di alcune specifiche categorie sempre sotto l’ombrello protettivo dei soliti potentati finanziari. Anzi, oramai esprimono una classe dirigente che proviene direttamente da quei mondi: penso a Profumo, a Passera e allo stesso Barca. Credono di poter conservare ancora a lungo una posizione di rendita rappresentando una parte di ceto medio destinato nel tempo a scomparire. Si illudono.
Ma come è stato possibile pervenire ad una realtà tanto sottile quanto antidemocratica?
Dal dopoguerra in avanti  le cose andarono bene. Esistevano anche allora cicliche crisi dalle quali però il sistema usciva nel suo insieme sempre più solido e rafforzato. Tutto cambiò nel 1971, quando vennero poste le basi per il successivo scioglimento di tutte le grandi imprese. Lo studio del club di Roma del 1969 costituisce il primo serio tentativo di cambiare un paradigma culturale inclusivo fino ad allora universalmente riconosciuto. Il progressivo affermarsi della retorica sulla “competitività” ha determinato il progressivo svuotamento del welfare. Cominciarono a circolare domande del tipo: “Ma perché anche chi non lavora deve avere diritto ad un trattamento decoroso?” Rispolverare ora la vecchia contrapposizione tra capitale e lavoro non ha più alcun senso. Oggi abbiamo da una parte un capitalismo finanziario spesso parassitario che si limita a monetizzare una supremazia nel campo dei saperi attraverso ad esempio lo sfruttamento dei brevetti; dall’altra una massa di nazioni da tenere in condizioni di sottosviluppo per impedire che imparino a fare concorrenza al più ricco Occidente. Lo stesso schema si ripete poi su scala interna. La produzione è funzionale al consumo delle sole classi alte, mentre i salariati e  i piccoli imprenditori, già ridotti all’osso, vengono indotti a riscoprire nuove forme di sussistenza sulla scia di un disperato bisogno.  Sono i risparmi, non più il solo salario, che rappresentano il prossimo boccone prelibato da spolpare. Il caso Cipro equivale al classico esperimento propedeutico ad una azione su larga scala. Non per niente la direttiva Barnier introduce in tutta Europa il principio secondo il quale le eventuali future crisi bancarie verranno pagate direttamente attingendo al denaro depositato dai correntisti. Questo tipo di rapina verrà presto legittimato dalle norme. Naturalmente al riparo del più assordante silenzio dei principali organi di informazione.
L’europeismo non va più molto di moda…
L’Europa nacque come antidoto per impedire guerre ricorrenti. Oggi è un caso politico prima che economico. L’euro fu voluto dalla Francia convintasi così facendo di poter controllare i tedeschi. Il sistema economico europeo funzionava molto meglio prima dell’introduzione della moneta unica. Tutti gli economisti più seri, già allora, dissero che l’euro non poteva funzionare. Infatti ha fatto danni e altri ne farà. Bisogna tornare allo status quo ante, cioè al serpente monetario europeo che prevedeva dei tassi di cambio negoziati con opportune fasce di oscillazione. Si può tornare indietro senza minacciare strappi unilaterali ma, più ragionevolmente, proponendo a tutti i Paesi dell’area euro una exit strategy armoniosa e coordinata. E’ una strada percorribile che non determinerebbe nessuno scenario apocalittico, con buona pace dei soliti profeti di sventura che negli ultimi anni non hanno azzeccato mai una previsione. I paesi dell’Europa del sud, Italia compresa, sono letteralmente al collasso, devono necessariamente fare massa critica per uscire dalle sabbie mobili nelle quali sono finite. Ma se il nord Europa dovesse continuare a fare orecchie da mercante, a quel punto bisognerebbe minacciare la fine del mercato unico europeo. La Germania, che esporta nel sud d’Europa il 75% delle sue merci, subirebbe un contraccolpo non indifferente.
Ma lei avverte uno spirito solidaristico tra i governanti delle diverse nazioni che compongono l’area euro?
Niente affatto. Ricordo con raccapriccio quando, peggiorando la crisi greca, alcuni politicanti italiani facevano a gara nel precisare che “l’Italia non è la Grecia”. Una vergogna assoluta. I problemi dei Paesi dell’area mediterranea sono i nostri problemi. Ma  molti pusillanimi preferiscono non vedere.
E se invece di tornare indietro andassimo avanti, puntando cioè alla costruzione degli Stati Uniti d’Europa?
Non credo si tratti di una strada percorribile. L’Unione Europea è composta da 28 paesi ma solo in 17 condividono la stessa moneta. La nascita dell’ Europa politica dovrebbe con ogni probabilità riguardare solo gli Stati della zona euro. E gli altri Stati, come ad esempio l’Inghilterra o la Danimarca, cosa farebbero di fronte ad una accelerazione in tal senso? E’ plausibile ritenere che tenderebbero ad allontanarsi ulteriormente approfondendo così la divisione già introdotta con l’euro. Non vorrei poi che le pulsioni belliche manifestate dalla Francia e dalla Gran Bretagna diventassero “patrimonio comune” di una futuribile Europa politica. Si tratta di un rischio concreto e inquietante.
In conclusione, cosa propone di fare per uscire dal pantano?
Innanzitutto chiarire i rapporti tra nord e sud Europa. Dieci paesi europei dimostrano che si può stare in Europa anche senza moneta unica. I diciassette paesi che compongono l’area euro devono rinegoziare i loro equilibri interni. In Europa circolano già oggi undici valute. Non morirà nessuno nel caso in cui diventassero dodici. L’euro così come è oggi rappresenta obiettivamente un grande problema.
E l’Italia?
Il dibattito politico italiano è assolutamente insufficiente. Il Movimento 5 Stelle, pur con qualche ingenuità, è permeabile al dibattito esterno. Per il Pdl e il Pd alcuni argomenti sono tabù. Nel Pdl o nel Pd mai nessuno potrebbe avere l’ardire di presentare un disegno di legge come quello presentato dal senatore pentastellato Vacciano che intende tornare allo spirito dello Steagall Act. Le classi dirigenti dei partiti tradizionali fiancheggiano il sistema di potere finanziario globale perché così facendo difendono se stesse. Molti di loro provengono da quel mondo e lì ritorneranno una volta finito il lavoro all’interno dei partiti. Sono parte del problema. Cosa vuole che risolvano?
Francesco Maria Toscano
29/08/2013

Primo passo: ritorno alle monete nazionali

Lordon: la moneta salva-Europa che la sinistra non vuole




La sinistra europea è direttamente responsabile del crimine contro la democrazia chiamato Eurozona, organizzato per conto delle élite che avevano un unico obiettivo: far sparire la sovranità popolare dal vecchio continente, precipitandolo in una crisi inaudita, in cui il lavoro scarseggia e i diritti diventano un lontano ricordo. E’ la conclusione cui perviene l’economista francese Frédéric Lordon, che indica una via d’uscita possibile: al posto dell’attuale “moneta unica”, per superare la crisi servirebbe una “moneta comune” europea, governata in modo sovrano dalle banche centrali nazionali e non convertibile all’esterno se non attraverso «una nuova Bce», che non avrebbe più potere in materia di politicamonetaria, ma fungerebbe solo da “ufficio cambi” per le transazioni internazionali tra le nuove “euro-monete” e le altre valute mondiali, come il dollaro.
«Molti, specialmente a sinistra, continuano a credere che l’euro verrà modificato, che passeremo dall’attuale euro austeritario a un euro Frédéric Lordonfinalmente rinnovato, progressista e sociale: questo non succederà», avverte Lordon in un intervento pubblicato dal “Manifesto” e da “Libération” e ripreso da “Megachip”. «Basta pensare all’assenza di qualsiasi leva politica nell’attuale immobilismo dell’unione monetaria europea per farsene una prima ragione. Ma questa impossibilità – continua Lordon – poggia soprattutto su un argomento molto più forte, che può essere espresso con un sillogismo». Premessa maggiore: «L’attuale euro è il risultato di una costruzione che, anche intenzionalmente, ha avuto come effetto quello di dare tutte le soddisfazioni possibili ai mercati dei capitali e strutturare la loro ingerenza sulle politiche economiche europee». Premessa minore: «Qualsiasi progetto di trasformazione significativa dell’euro è ipso facto un progetto di smantellamento del potere dei mercati finanziari e di espulsione degli investitori internazionali dal campo dell’elaborazione delle politiche pubbliche». E’ ingenuo, quindi, aspettarsi che i “padroni dell’universo” lascerebbero fare.
«I mercati – chiarisce l’economista – non lasceranno mai che si concepisca, sotto i loro occhi, un progetto la cui finalità evidente è quella di sottrarre loro il potere disciplinare». E appena un progetto di smantellamento dell’euro cominciasse ad acquisire un briciolo di consistenza politica e qualche probabilità di essere attuato, «si scatenerebbero una speculazione e una crisi di mercato acuta che non lascerebbero il tempo di istituzionalizzare una costruzione monetaria alternativa». Il solo esito possibile, a caldo, «sarebbe il ritorno alle monete nazionali», cioè lo scenario più avversario da «quella sinistra “che ancora ci crede”», come il partito socialista francese, «che oramai con la sinistra intrattiene esclusivamente rapporti di inerzia nominale». Idem per «la massa indifferenziata degli europeisti che, silenziosa o beata per due decenni, scopre solo ora le tare del suo oggetto prediletto e realizza, con sgomento, che potrebbe andare in frantumi». Nessuna soluzione sul tappeto, perché «un così lungo periodo di beato torpore intellettuale non si recupera in un batter d’occhio». In altre parole: dall’attuale sinistra europea è inutile Hollandeaspettarsi qualcosa di utile.
In verità, aggiunge Lordon, «le scarne idee a cui l’europeismo aggrappa le sue ultime speranze sono diventate parole vuote: titoli di Stato europei (o Eurobond), “governo economico”, o ancora meglio il “balzo in avanti democratico” di François Hollande», formule di carta che possono al massimo suscitare l’ilarità di Angela Merkel. La sinistra annaspa tra «soluzioni deboli per un pensiero degno della corazzata Potëmkin che, non avendo mai voluto approfondire nulla, rischia di non capire mai niente». Ma attenzione, non è detto che Hollande e compagni siano solo tonti, e quindi innocenti: è possibile che siano, più che altro, complici diretti dell’ingegneria del disastro. «Può darsi che si tratti non tanto di comprendere quanto di ammettere: ammettere finalmente la singolarità della costruzione europea, che è stata una gigantesca operazione di sottrazionepolitica». Cosa c’era da sottrarre, esattamente? «Né più né meno che la sovranità popolare». Sicché, «la sinistra di destra, diventata come per caso europeista forsennata, si riconosce, tra l’altro, per come le si drizzano i capelli in testa quando sente la parola sovranità, immediatamente ridotta a “ismo”: sovranismo».
La cosa strana, aggiunge Lordon, è che a questa “sinistra di destra” «non viene in mente neanche per un attimo che “sovranità”, intesa innanzitutto come sovranità del popolo, è semplicemente un altro termine per indicare lademocrazia stessa». E’ come una sorta di “confessione involontaria”: «Il rifiuto della sovranità equivale a un rifiuto della democrazia in Europa», anche se la retorica di partito fabbrica spauracchi come l’espressione “ripiegamento nazionale”, temendo il 25% del Front National, senza peraltro domandarsi da dove venga il successo di Marine Le Pen. Una percentuale che «ha molto a che fare con la distruzione della sovranità, non intesa come esaltazione mistica della nazione, ma come capacità dei popoli di determinare il loro destino». Finiamola con l’ipocrisia, insiste Lordon: la sinistra, massima sostenitrice dei trattati-capestro europei, da Maastricht in poi, ha finto di ignorare «lo scandalo intrinseco della sottrazione delle politiche pubbliche al criterio fondamentale della democrazia», cioè la possibilità di rivedere sempre gli accordi presi. In Europa, invece, «si è scelto di scrivere tutto e una volta per tutte in trattati inamovibili». Politicamonetaria, uso dello strumento budgetario, livello di indebitamento Marine Le Penpubblico, forme di finanziamento del deficit: «Tutte queste leve fondamentali sono state scolpite nel marmo».
Come si potrebbe discutere del livello di inflazione desiderato quando quest’ultimo è stato affidato a una Banca centrale indipendente e tagliata fuori da tutto? Come si potrebbe decidere una politica budgetaria quando il suo saldo strutturale è predeterminato (“pareggio di bilancio”) ed è fissato un tetto per il suo saldo corrente? E ancora: come decidere se ripudiare un debito, quando gli Stati possono finanziarsi solo sui mercati di capitali? «Lungi dal fornire la benché minima risposta a queste domande – anzi, con l’approvazione implicita che danno a questo stato di cose costituzionale – le trovate da concorso per le migliori invenzioni europeiste sono votate a passare sistematicamente accanto al nocciolo del problema», col granitico appoggio della “sinistra di destra” inaugurata da Mitterrand e incarnata oggi da Hollande. «Ci si domanda così quale senso potrebbe avere l’idea di “governo economico” dell’Eurozona, questa bolla di sapone, che il Ps propone, quando non c’è proprio più niente da governare, dal momento che tutta la materia governabile è stata sottratta a qualsiasi processo decisionale per essere blindata in quei trattati».
Anche immaginando – in via del tutto ipotetica – un’Europa finalmente libera, civile e democratica, ovvero «unademocrazia federale in piena regola, con un potere legislativo europeo degno di questo nome, ovviamente bicamerale e dotato di tutte le sue prerogative, eletto a suffragio universale» e non certo “nominato” com’è oggi la Commissione Europea, la domanda che si porrebbe a tutti coloro che sognano di “cambiare l’Europa per superare la crisi” sarebbe la seguente: «Riescono a immaginare la Germania che si piega alla legge della maggioranza europea se per caso il Parlamento sovrano decidesse di riprendere in mano la Banca centrale, di rendere possibile un finanziamento monetario degli Stati o il superamento del tetto del deficit di bilancio?». Ridicolo il solo pensarlo. Sarebbe come aspettarsi l’applauso dei francesi se «la maggioranza europea imponesse alla Francia la privatizzazione integrale della sicurezza sociale». A proposito: «Chissà come avrebbero reagito gli altri paesi se la Francia avesse imposto all’Europa la propria forma di protezione sociale, come la Germania ha fatto con l’ordine monetario, e se, come quest’ultima, ne avesse fatto unaMitterrandcondizione imprescindibile».
Bisognerà dunque che gli architetti di questo disastroso europeismo si accorgano che «non c’èdemocrazia vivente, né possibile, senza uno sfondo di sentimenti collettivi, unico capace di far acconsentire le minoranze alla legge della maggioranza». Se la democrazia è “la legge della maggioranza”, aggiunge Lordon, «questo è proprio il genere di cose che gli alti funzionari – o gli economisti – sprovvisti di qualsiasi cultura politica, e che però formano l’essenziale della rappresentanza politica nazionale ed europea, sono incapaci di vedere. Questa povertà intellettuale – continua l’economista – ci porta regolarmente ad avere questi mostri istituzionali che ignorano il principio di sovranità, e il “balzo in avanti democratico” si annuncia già incapace di comprendere come questo comune sentire democratico sia una condizione essenziale e di come sia difficile soddisfarla in un contesto plurinazionale».
Primo passo, dunque: il ritorno alle monete nazionali, per ripristinare sovranità democratica, potere di spesa e quindi strumenti finanziari anti-crisi. Soluzione «tecnicamente praticabile», secondo Lordon: «Basta che sia accompagnata da alcune semplici misure ad hoc (in particolare il controllo sui capitali) e saremo in grado di non abbandonare completamente l’idea di fare qualcosa in Europa». Non una “moneta unica”, poiché questa presuppone una costruzione politica autentica, per il momento fuori dalla nostra portata. Fattibile, invece, una “moneta comune”, ossia «un euro dotato di rappresentanti nazionali: degli euro-franchi, delle euro-pesetas, ecc». Immaginiamo questo nuovo contesto, in cui le denominazioni nazionali dell’euro non siano direttamente convertibili verso l’esterno (in dollari, yuan) né tra loro. «Tutte le convertibilità, esterne e interne, passano per una nuova Banca Centrale Europea, che funge in qualche modo da ufficio cambi, ma è privata di ogni potere di politicamonetaria. Quest’ultimo è Draghirestituito alle banche centrali nazionali, e saranno i governi a decidere se riprendere il controllo su di esse o meno».
La convertibilità esterna, riservata all’euro, si effettuerebbe sui mercati di cambio internazionali, quindi a tassi fluttuanti, ma attraverso la Bce, cioè il solo organismo delegato per conto degli agenti (pubblici e privati) europei. «Di contro, la convertibilità interna, quella dei rappresentanti nazionali dell’euro tra loro, si effettua solo allo sportello della Bce, e a delle parità fisse, decise a livello politico: ci sbarazziamo così dei mercati di cambio intraeuropei, che erano il focolaio di crisi monetarie ricorrenti all’epoca del Sistema Monetario Europeo, e al tempo stesso siamo protetti dai mercati di cambio extraeuropei per l’intermediario del nuovo euro». Proprio questa doppia caratteristica, secondo Lordon, sarebbe «la forza della moneta comune», restituita ai governi in modo da consentire loro di far fronte al disastro della recessione provocata proprio dalla rigida deflazione imposta dall’attuale euro-rigore.