sabato 4 gennaio 2014

L’inestirpabile tentazione di potere delle fondazioni

Il caso Mps e l’inestirpabile tentazione di potere delle fondazioni

In nessun posto come a Siena si intrecciano da anni interessi diversi e confliggenti. Tenerli distinti avrebbe evitato molti guai

Se rispondesse al vero l’etichetta che mi hanno attaccato di “nemico delle fondazioni”, ragioni per Schadenfreude le recenti vicende di Mps me ne avrebbero fornite a iosa. Se non è così è per un malinteso, meglio, un errore fondamentale, che attraversa tutta la storia del nostro sistema bancario da quando Giuliano Amato creò le fondazioni bancarie. Separare banche da fondazioni comportava separare gli interessi delle banche da quelli delle fondazioni. Proprio quello che le fondazioni non hanno voluto fare, considerando anzi loro “nemico” chi proponeva gli strumenti legislativi che potevano consentirgli di farlo. Separare gli interessi consente di evitare i conflitti; la resistenza a farlo, resistenza ideologica e pratica, è il filo rosso che consente di leggere la storia del nostro sistema bancario degli ultimi venti anni. Mps in questa storia è un fatto anomalo, ma non eccezionale. Riconoscerlo come fatto estremo di una storia di cui fa parte, consente di meglio comprendere il passato e offre qualche indicazione per orientarsi nelle vicende in corso.
Detenere una quota significativa per il controllo comporta una concentrazione di rischio incompatibile con la ragion d’essere delle fondazioni. Il disegno di legge che avevo scritto con Alessandro De Nicola, Francesco Giavazzi, Alessandro Penati era lo strumento per consentire alle fondazioni bancarie di vendere le loro partecipazioni nelle banche conferitarie: venne preso come un esproprio giacobino. “Non sono sicuro di avere capito tutto, ma quello che ho capito non mi piace”, era stata la risposta di Nino Andreatta quando glielo presentai. Gli emendamenti, manco so più quanti fossero, che ho presentato nei tanti passaggi del Tuf in commissione e in Aula perché alle fondazioni non fosse concesso di detenere partecipazioni di controllo in aziende, bancarie e non, miravano a che le fondazioni seguissero i propositi statutari del dare, ed evitassero le tentazioni del fare. Perché “contare” fosse un’attività transitivamente riferita alla gestione del patrimonio e non transitoriamente all’esercizio del potere, del potere per eccellenza, verso il potere politico. Aiutandolo, se occorreva, a difendere l’italianità di un’azienda o a finanziare un progetto di social housing.
In nessun posto come a Siena interessi della Fondazione e interessi della banca erano confusi, inestricabilmente intrecciati, fino a essere un tutt’uno. Un’identità voluta e difesa dalla città, inspiegabilmente tollerata dalle istituzioni: alla Fondazione è stato consentito di mantenere per anni una partecipazione del 50 per cento nella banca. Ponendo al primo posto non l’obiettivo istituzionale della sana e prudente amministrazione del patrimonio ma quello politico di mantenere il controllo assoluto, la Fondazione ha: danneggiato gli “aventi diritto” al suo patrimonio; danneggiato la banca che ha adottato strategie che l’hanno portata quasi al dissesto; danneggiato il sistema bancario italiano, con le iniziative prese e con quelle impedite. Se la magistratura fosse intervenuta mettendo un commissario a gestire la situazione, nessuno si sarebbe sorpreso, i precedenti non mancavano. Se l’avesse imposto l’organo di vigilanza la sorpresa semmai era che non l’avessero già fatto prima. In ogni caso bisogna rendersi conto che la situazione è da commissariamento. Questo è il ruolo che il nuovo presidente della Fondazione deve considerare come proprio: un commissario giudiziale che deve salvaguardare quello che resta del patrimonio del soggetto commissariato.
E così si arriva alla fatidica assemblea del 28 dicembre. La domanda da porsi è: come avrebbe votato un commissario, a favore o contro la proposta di fare subito l’aumento di capitale? Tutti quelli che anche ruvidamente criticano la presidente Antonella Mansi lo fanno considerando (quali potrebbero essere) gli interessi della banca. Invece un commissario avrebbe considerato suo dovere guardare dal lato della Fondazione, dal lato del suo patrimonio da salvare, e quindi avrebbe votato contro. In quest’ottica anche qualche eccesso nel valutare le conseguenze del ritardo – sia l’inevitabilità di quelle negative per la banca, sia la solidità di quelle positive per la Fondazione – rientrano nella normale dialettica tra le parti. Tenere separati gli interessi di banche e di fondazioni riguarda tutti. Che le fondazioni abbiano considerato di propria competenza l’interesse delle banche non giustifica che ora da parte delle banche si consideri di propria competenza l’interesse delle fondazioni.
Dirlo non mi leverà certo l’etichetta di nemico delle fondazioni: d’altra parte non illudiamoci, neppure dopo la lezione di Mps le fondazioni avranno rinunciato alle tentazioni del potere.
di Franco Debenedetti

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