domenica 12 gennaio 2014

Scilipoti con cartello: 'L'Italia si riappropri della sovranità monetaria'.

Ansa
15:57
09-01-14
Dl Imu-Bankitalia: la protesta in Aula di Scilipoti

(ANSA) - ROMA, 9 GEN - Forza Italia vota no al decreto legge
Imu-Bankitalia e il senatore Domenico Scilipoti protesta
nell'aula del Senato prima del voto finale, esponendo un
cartello con su scritto: 'L'Italia si riappropri della sovranità
monetaria'.
"Il nostro Paese - dichiara Scilipoti - si è privato nel 1992
e poi con la nascita dell'euro e della Bce, attraverso la
privatizzazione della Banca d'Italia, della sua sovranità
monetaria. Bankitalia iscrive nei suoi bilanci alla voce
passivo, anziché all'attivo, i circa 130 miliardi di euro di
carta moneta che invece di confluire nelle casse dello Stato
vengono dirottati ai privati che detengono le quote della
Banca". "Noi non vogliamo uscire dall'euro nè cavalcare inutili
populismi antieuropei - osserva - ma vogliamo denunciare con
forza questo scandalo. 130 miliardi all'anno potrebbero essere
utilizzati proficuamente per aiutare il Paese ad uscire dalla
crisi". "Vogliamo quindi - conclude il senatore forzista - che
gli italiani ne siano posti al corrente e che la politica tutta
ne prenda coscienza per porre rimedio a questo perverso
meccanismo".
(ANSA).
BSA
09-GEN-14 15:56 NNNN

La cannibalizzazione della Germania Est

Anschluss

Una colonia unter den Linden

di Luca Cangianti

Vladimiro Giacché, Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur, 2013, pp. 304, € 18,00
La Repubblica democratica tedesca (Rdt), la Germania Est, era un paese del blocco realsocialista. Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso la sua economia era decotta e presto sarebbe fallita sotto il peso dei debiti. La Repubblica federale tedesca (Rft), la Germania Ovest, tese generosamente la mano ai connazionali d’oltre muro con il Trattato d’unione monetaria che entrò in vigore il 1° luglio del 1990, permettendo ai cittadini tedesco-orientali di avere libero accesso alle merci occidentali. Dopo l’unione politica entrata in vigore il 3 ottobre dello stesso anno, il governo della Germania unificata avviò una politica di investimenti per ricostruire e integrare la disastrata economia dell’est.
È questa in sintesi la narrazione corrente e ufficiale dell’unificazione tedesca che Vladimiro Giacché mette radicalmente in discussione in Anschluss basandosi su una vasta documentazione per la maggior parte inaccessibile a chi non conosca il tedesco. Nonostante si tratti di un lavoro di storia economica, il focus del libro è immediatamente rivolto al presente politico. Secondo Giacché, infatti, rileggendo le vicende che portarono alla fine della Rdt si può capire molto di quello che sta avvenendo oggi nell’eurozona. Basta mettere al posto della Germania Est i cosiddetti Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), come del resto ha recentemente fatto la stessa cancelliera Angela Merkel durante una riunione del Consiglio europeo.
Il dispositivo sperimentato nei confronti della Rdt sta oggi lavorando nei paesi periferici dell’Unione europea mediante la spirale del debito, degli inutili e dannosi tentativi di porvi argine, delle privatizzazioni, delle politiche recessive dell’austerità, della distruzione dello stato sociale e del tessuto produttivo. Grazie al vincolo monetario è stato messo all’opera un meccanismo di esproprio che nella Rdt ha svolto le funzioni sia di accumulazione originaria che di creazione di una zona interna di sottosviluppo funzionalizzata alle esigenze di valorizzazione del capitale. Qualcosa di simile avvenne con il Mezzogiorno d’Italia e ora rischia di accadere nuovamente con l’attuale processo di unificazione europea.
Ma veniamo ai fatti. Con l’unione monetaria del 1990 i marchi orientali furono cambiati con un rapporto 1 a 1 con quelli occidentali, mentre il loro rapporto reale era di 4,44 a 1. Ne conseguì un brutale e repentino apprezzamento della valuta usata all’est di quasi il 450%. Ciò fece lievitare surrettiziamente i debiti delle aziende nei confronti dello stato. In verità non si trattava di debiti veri e propri come nella contabilità di un’azienda privata, ma di somme che lo stato socialista riallocava dopo averle ricevute dalle aziende stesse. In quanto proprietario dell’intero patrimonio industriale, nella Rdt lo stato incamerava i profitti per poi “prestarne” una parte alle stesse aziende che li avevano generati.
In soli due anni, inoltre, l’export orientale crollò del 56%, senza che fossero più possibili forme di svalutazione competitiva. Le imprese della Rdt persero immediatamente i mercati dell’Europa dell’est verso i quali si dirigevano gran parte delle loro esportazioni, che prima dell’unione monetaria ammontavano al 50% della produzione nazionale. La caduta del pil non ebbe pari tra gli altri paesi europei del Comecon, con la particolarità che la Rdt era l’economia più sviluppata del gruppo. La disoccupazione, precedentemente assente e vietata per dettato costituzionale, raggiunse nel settembre del 1990 un milione e 800 mila di unità, rimanendo anche nei decenni a seguire tra le più alte dell’intera Unione europea. Il risultato è che ancora oggi il 44% della popolazione tedesco-orientale vive di sussidi, con un pil pro capite inferiore del 27% rispetto a quella dell’ovest. Intere zone industriali sono state riassorbite dalla natura, molti centri urbani si sono spopolati e il tasso di natalità, prima superiore a quello della Rft, è caduto sotto la soglia della pura riproduzione.
Secondo le argomentazioni contenute in Anschluss, insomma, il disastro economico e sociale dell’est tedesco non fu tanto il punto di partenza del processo di unificazione monetaria, quanto il suo risultato. Alla vigilia di tale passaggio la Rdt era sicuramente un’economia affetta da bassa produttività (45-55% di quella della Rft), invecchiamento dei macchinari e insufficienti investimenti infrastrutturali – tutti mali presenti anche nelle altre economie realsocialiste, in particolar modo a partire dagli anni settanta. Nel dopoguerra, inoltre, la Rdt aveva dovuto farsi carico della gran parte del peso dei risarcimenti di guerra senza poter beneficiare del piano Marshall. Ciò nonostante era riuscita a svilupparsi industrialmente in molti settori e alla vigilia dell’unificazione non era certo prossima alla bancarotta. Il valore dei suoi asset industriali era stimato infatti in 600 miliardi di marchi da Detlev Rohwedder, il presidente della Treuhandanstalt, l’agenzia fiduciaria che fu preposta alla privatizzazione del patrimonio pubblico della Rdt. Tale operazione si risolse con un colossale esproprio senza indennizzo ai danni dei cittadini tedesco-orientali e con una distruzione di ricchezza di dimensioni belliche. Gli acquirenti delle imprese della Rdt furono per l’87% a tedeschi dell’ovest, per i 7% stranieri e solo per il 6% a cittadini dell’est. La maggior parte delle aziende furono chiuse, smembrate, trasformate in succursali distributive di imprese dell’ovest o in aziende di subfornitura gerarchicamente subordinate. Il tutto avvenne senza che fossero organizzate aste, ma con trattative private, mentre agli esecutori di tali privatizzazioni fu concessa una garanzia di copertura legale e finanziaria sul loro operato. Gli atti della commissione parlamentare d’inchiesta chiusasi al riguardo nel 1994 sono stati secretati per l’80%.
Vladimiro Giacché riporta una suggestiva descrizione di un etnologo, Wolfang Kaschuba: “Degli stranieri avanzano nel territorio di una cultura indigena, si impossessano delle posizioni chiave di capitribù e stregoni, distruggono le tradizioni locali, annunciano nuovi articoli di fede, fondano nuovi riti. Il paradigma classico di un conflitto interetnico di culture, solo che il suo teatro non è la Papuasia o la Nuova Guinea, ma un luogo così vicino da risultare assolutamente antiesotico: Berlino, Unter den Linden” (p. 178). Lo studioso si riferiva a quanto stava accadendo nel 1993 alla Humbold-Universität, la cui sede si trova per l’appunto nel viale di Unter den Linden, ma l’accostamento tra il processo di unificazione tedesca e il colonialismo sembra assolutamente pertinente. Non a caso un sondaggio Emnid del novembre 1992 in cui si chiedeva ai cittadini dell’ex Rdt di esprimere la proprio opinione riguardo all’affermazione “i tedeschi dell’ovest hanno conquistato l’ex Rdt in stile coloniale”, riceveva le seguenti risposte: 32% “pienamente e del tutto d’accordo”, 28% “abbastanza d’accordo” e 21% “un po’ d’accordo” (il che significa che l’81% era in qualche modo “d’accordo”).
Questi fatti ci riportano al titolo del libro. Anschluss significa annessione, ma in storia contemporanea con questo termine tedesco si indica la specifica inclusione violenta dell’Austria all’interno della Germania hitleriana avvenuta nel 1938. Ebbene l’unificazione del 1990 non è avvenuta mediante un esercito d’invasione, ma con il consenso indiretto degli elettori tedesco-orientali che, forse pensando di trasformarsi d’incanto in benestanti bavaresi, diedero la maggioranza ai partiti favorevoli a questa opzione. Tuttavia i nazisti apportarono al diritto austriaco solo alcune modifiche, anche se estremamente drammatiche (si pensi alle leggi razziali). Di contro alla Rdt sono state estese, praticamente in toto, le leggi della Germania Ovest. Come in un processo di colonizzazione.
Ai margini di questa narrazione mi pongo un interrogativo: come è stato possibile che i cittadini dell’ex Rdt che nel 1992 sentivano di aver subito una sorte di tipo coloniale fossero gli stessi che solo due anni prima votavano per i partiti favorevoli all’annessione? Come è stato possibile che la stragrande maggioranza dei tedeschi dell’est acconsentisse alla propria spoliazione? Una risposta debole è che se le necessarie riforme economiche fossero state effettuate in tempo utile e fossero state introdotte iniezioni di democrazia, il bambino socialista non sarebbe stato gettato con l’acqua sporca burocratica mediante la grande truffa dell’unificazione. Eppure l’implosione dei paesi dell’est europeo è stata di una dimensione e di una profondità tali da non render più credibile e desiderabile un modo di produzione socialista accerchiato dal mare capitalistico. In condizioni simili, le pressioni esterne sono tali da poter essere sopportate, transitoriamente, qualora si riesca a ingenerare un processo espansivo – come quello cui puntavano i rivoluzionari russi nel 1917, senza che furono in grado di conseguirlo, o come quello che oggi, in una situazione molto diversa, sembrano portare avanti alcuni governi progressisti latinoamericani. Di contro laddove si è pensato di stabilizzare il socialismo in un’area con tassi di produttività inferiori rispetto a quelli vigenti nei paesi capitalisti avanzati si è aperta la via a forme di degenerazione che hanno portato a regimi autoritari e a nuove stratificazioni sociali basate sul monopolio del potere politico. Ciò si è prodotto perché la resistenza al perdurante capitalismo egemone al livello planetario ha sottoposto le società postrivoluzionarie a pressioni tali che per esser arginate hanno portato a esercizi di forza e di disciplina defatiganti, mutageni e autodistruttivi.
La storia della Rdt in fondo testimonia proprio questo. Lo scambio neocoporporativo tra il monopolio politico detenuto dall’élite dei funzionari e la garanzia dei diritti sociali assicurata ai cittadini, una volta finito il periodo di emergenza postbellica, ha contribuito al peggioramento dei tassi di produttività e di innovazione tecnologica, con particolare riferimento alla rivoluzione informatica avviata negli anni settanta.  In queste condizioni il pervasivo controllo poliziesco della Stasi nulla ha potuto di fronte allo scintillio delle merci esibite nei grandi magazzini della KaDeWe di Berlino ovest.
In conclusione, lutilità del libro di Vladimiro Giacché è doppia. Da una parte ci svela con grande chiarezza le modalità dell’esproprio e della “mezzogiornificazione” in corso in Europa attraverso l’esempio storico della Rdt.  Dall’altra aggiunge elementi oggettivi di riflessione per chi si proponga come obiettivo il superamento del capitalismo, dopo la disfatta del socialismo reale.